Cura e diritti: il dovere di scegliere la libertà
Questa è una delle tante foto che circolano spesso, poichè riprese da siti di immagini libere da diritti: un padre e un figlio si sorridono naso contro naso, stringendosi in un gesto semplice e pieno di umanità. È un’immagine che parla di amore, di dedizione, di fatica e di speranza. È anche l’immagine di tante famiglie sammarinesi che ogni giorno si prendono cura di un figlio o di un familiare con disabilità – intellettiva, motoria, sensoriale – con un impegno che non conosce orari né pause. Ma dietro a questo gesto si nasconde anche una domanda profonda, e spesso taciuta: chi si prende cura di chi si prende cura?
Negli ultimi anni, anche a San Marino, si è aperta una riflessione sulla necessità di riconoscere maggiormente il ruolo dei genitori e dei caregiver familiari, in particolare di quelle madri che rinunciano a lavoro, reddito e contributi per garantire assistenza continua a un figlio con disabilità grave. È un tema che suscita empatia e rispetto, ma che richiede anche lucidità e coraggio nel pensare a un modello di società capace di sostenere la cura senza trasformarla in dipendenza.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dalla nostra Repubblica nel 2008, ci indica una direzione chiara: ogni persona ha diritto a vivere in modo indipendente, a scegliere dove e con chi vivere, a ricevere il sostegno necessario per partecipare pienamente alla vita sociale. Non si tratta solo di assistenza, ma di libertà e autodeterminazione. Le politiche sociali non dovrebbero limitarsi a “proteggere”, ma a creare le condizioni perché ciascuno possa scegliere e decidere.
Oggi, però, il modello prevalente resta ancora fortemente centrato sulla famiglia. I genitori diventano pilastri di un sistema che, pur con le migliori intenzioni, non offre ancora alternative solide. I sostegni domiciliari sono limitati e i programmi di Vita Indipendente ancora troppo volubili, per non dire inesistenti. In questo modo, la cura familiare – da gesto d’amore – si trasforma spesso in un destino obbligato, in una responsabilità senza confini né prospettive di sollievo.
Un sistema che concentra tutto il peso e il potere della cura sulla famiglia rischia di produrre una forma di istituzionalizzazione invisibile. Il genitore, per sopravvivere economicamente, diventa caregiver a tempo indeterminato; la persona con disabilità, per mantenere quel sostegno, è costretta a restare “accudita”. Entrambi finiscono prigionieri di un meccanismo costruito più sulla necessità che sulla scelta.
E se un giorno quella persona desiderasse un’altra forma di vita, o il genitore avesse bisogno di tempo, lavoro o libertà? Un sistema senza alternative non libera nessuno.
L’assenza di opzioni concrete porta anche al cosiddetto ‘burnout familiare’, una condizione di esaurimento fisico, emotivo e mentale che genera senso di impotenza, frustrazione e isolamento.
In questa riflessione è importante ricordare, inoltre, che la famiglia non è sempre un luogo sicuro. Molte lo sono, e rappresentano spazi di amore e resistenza straordinaria, ma non di rado le persone con disabilità subiscono violenza, trascuratezza o abuso proprio all’interno del contesto familiare. Idealizzare la famiglia come rifugio “naturalmente buono” rischia di rendere invisibili queste situazioni, di negare la necessità di protezione e di scelta anche nei confronti di chi vive sotto lo stesso tetto. Una politica dei diritti deve saper guardare anche dove è più scomodo guardare.
Riconoscere la fatica e la dedizione di chi si prende cura è doveroso. Ma il passo decisivo consiste nello spostare il baricentro del sostegno: non più chiedersi quanto è grave la disabilità, ma quali sono gli ostacoli che impediscono una piena partecipazione sociale. Non più concentrarsi su chi si prende cura, ma su quali strumenti servano per consentire alla persona di gestire la propria vita in autonomia. Questo significa investire realmente nell’assistenza personale autogestita, nel diritto alla scelta, nella formazione dei caregiver quando necessaria, nella flessibilità dei servizi, e nella revisione dei criteri di valutazione ancora troppo ancorati a modelli medico-assistenziali. È un cambiamento culturale profondo, che trasforma la cura da dovere familiare in responsabilità collettiva.
Una società matura non scarica sulle famiglie la mancanza di politiche inclusive, ma costruisce un sistema che permette di scegliere liberamente se essere caregiver, lavoratore, genitore o tutte queste cose insieme. Anche San Marino deve diventare un Paese in cui il prendersi cura non sia sinonimo di sacrificio perpetuo, ma di alleanza sociale e solidale. Il nostro territorio, peraltro, per le sue dimensioni e la sua vocazione, potrebbe diventare un laboratorio innovativo: un modello di equilibrio tra prossimità umana e diritti. E il vero equilibrio tra cura e diritti sta proprio qui: non nel contrapporre l’uno all’altro, ma nel riconoscere che la cura più autentica è quella che libera.
📸 Foto di Nathan Anderson su Unsplash
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