Quando il potere addomestica la lotta dei movimenti per la disabilità

Negli ultimi anni, chi si batte per i diritti delle persone con disabilità si è trovato davanti a una trappola tanto sottile quanto pericolosa: quella della depoliticizzazione. Di che si tratta? È un fenomeno che l’interessante articolo “How authoritarianism and neoliberalism work together to depoliticise disability movements” descrive con chiarezza, e sul quale riteniamo importante riflettere. Il potere e l'arroganza da un lato (autoritarismo), il profitto e la convenienza dall'altro (neoliberismo). Quadri apparentemente opposti, ma che finiscono per lavorare insieme nel neutralizzare la portata politica dei movimenti.
Il primo impone silenzio e paura; il secondo insegna a “stare al proprio posto” dentro logiche di mercato, competizione e visibilità individuale.
E quando queste due spinte si incontrano, il risultato è devastante: la disabilità torna ad essere gestita, ma non ascoltata; esibita, ma non compresa; rappresentata, ma non autodeterminata.
È un processo invisibile, quasi gentile. Non arriva con la censura o con la repressione diretta, ma con l’abbraccio morbido delle logiche dell’efficienza, dei progetti, delle scadenze, delle procedure.

Le istituzioni, i grandi finanziatori, i sistemi politici, che siano democratici o autoritari, tendono a preferire movimenti che non disturbano troppo, che non mettono in discussione le disuguaglianze di fondo, ma che si occupano solo di “migliorare” ciò che già esiste.
Così, poco alla volta, un movimento nato, anche velleitariamente, per cambiare il mondo rischia di diventare un “fornitore di servizi”, una struttura ordinata che produce rendiconti, loghi e report, ma non più scosse.

Le organizzazioni che nascono per rivendicare diritti rischiano così di diventare, senza volerlo, parte del sistema che dovevano trasformare.
Ci si abitua a parlare il linguaggio dei bandi, non quello dei diritti. Si misura il successo in termini di progetti conclusi, non di vite cambiate.
Si confonde la visibilità con l’impatto, la foto con la sostanza.

Eppure, la disabilità è, e deve restare, un fatto politico. Lo è ogni volta che qualcuno rivendica la libertà di scegliere dove e con chi vivere.
Lo è ogni volta che si denuncia una barriera, fisica o culturale. Lo è ogni volta che si rifiuta di essere ridotti a casi, statistiche, o destinatari di attenzioni paternalistiche.

Essere movimento politico, nel senso più alto del termine, non significa appartenere a un partito o schierarsi contro qualcuno.
Significa avere una visione del mondo e volerla cambiare con la propria presenza, con le proprie scelte, con la propria voce.
Significa ricordare che l’inclusione non è una gentile concessione, ma un diritto umano, e che i diritti umani non si chiedono: si esercitano.

Per questo, è importante vigilare anche su noi stessi.
La vera sfida dei movimenti per la disabilità, oggi, è non perdere la propria anima politica. Non smettere di disturbare.

Non smettere di ricordare che la disabilità è parte della condizione umana, e che la società si misura non da quanto assiste, ma da quanto emancipa. Restare movimento politico, nel senso più profondo, significa continuare a praticare l’autodeterminazione collettiva, a costruire spazi di libertà, a dare corpo a quella promessa che ancora oggi risuona potente: “Nulla su di noi senza di noi.”

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